Presentazione
di Italo Cucci

Non sono, né aspiro a diventare storico del Frignano ma mi piace - su sollecitazione degli amici del Lions - dare il mio contributo alla realizzazione di un progetto intelligente come quello che va sotto il titolo "Il Frignano e lo Sport". Si tratta di appunti personali, di brevi flash inerenti la conoscenza di una bellissima zona dell'Appennino.

Le strade della mia vita di giornalista e di padre m'hanno portato spesso nel Frignano. A cominciare dai primi anni Sessanta, quando misi piede per la prima volta nella redazione del "Resto del Carlino", a Bologna. 

Un giorno del '63, era d'estate, tempo di ritiri per le squadre calcistiche, il grande Severo Boschi, mio capo e maestro, mi spedì a Pievepelago, sede del ritiro del Bologna, per la prima intervista al neo-acquisto Helmut Haller, l'asso tedesco che di lì a poco i tifosi rossoblù avrebbero ribattezzato "il Panzer". Un panzer gentile, se mai ve ne fu uno. E i tifosi arrivavano a frotte, riscoprendo insieme ai campioni amati anche la montagna dei padri, con effetti benefici sul turismo. 

L'idea dal Bologna a Pievepelago era venuta a Giorgio Neri, mitico patron del tennis italiano, della Virtus bolognese e vicino al calcio rossoblù: fu lui, a quei tempi, a dar vita al centro-tennis che avrebbe ospitato legioni di aspiranti Pietrangeli provenienti da tutta Italia. 

Dopo la visita a Haller, presi a frequentare il ritiro sempre più spesso e fu così che diventai amico di un altro mito, Fulvio Bernardini detto "Fuffo" che a sua volta mi presentò un altro illustre amico del luogo, papà Lenzini, presidente della Lazio-scudetto, che lì era nato e ne menava vanto. 

Più tardi, molto più tardi, ritrovai un altro grande amico del pallone che avevo perduto di vista perchè migrato su una panchina del sud: non a Pievepelago, ma a Pavullo, aveva portato il Foggia il grande Ettore Puricelli detto "Testina d'Oro", goleador, fra l'altro, del Bologna anteguerra, facondo narratore di storie che a certe ore del giorno, nel relax del dopo-allenamento, veniva circondato dai ragazzini che "studiavano" al centro sportivo pavullese. Fu una delle mie figlie, un giorno, a dirmi: "C'è un signore che ti conosce e vuole incontrarti". Le ragazzine seguivano il corso di judò, vivevano in una comunità serena, e come tanti genitori andavo a trovarle nei fine-settimana: qualche "pezzo" dettato dai ritiri e qualche ora con loro: una vacanza anche per il giovane cronista che scavallava fra i monti a bordo di una superveloce portandosi appresso entusiasmo e Olivetti Lettera 22. 

Era - manco a dirlo - un altro mondo, un'altra Italia, un altro calcio. Fra le tante curiosità di quei giorni, la scoperta del pittore Covili che ben conosceva Severo Boschi. Quando gliene parlai sbottò: "Allora non sei un ignorantello di giornalistino sportivello". 

I racconti dell'altro maestro, Fulvio Bernardini, attraversano invece la storia: le sue partite a tennis con Mussolini, le sue liti con Vittorio Pozzo per la maglia azzurra dei Mondiali, la sua milizia nell'Inter, alla Roma, alla Lazio: "C'è un ragazzo, nella Lazio - mi disse un giorno - che è nato da queste parti, uno spilungone che colpisce bene di testa. Si chiama Bui, Gianni Bui". L'anno dopo lo scudetto, nella stagione '64-'65, la spilungone, nativo di Serramazzoni, venne a giocare a Bologna ed ebbi modo di apprezzarne non solo le qualità di calciatore ma anche di uomo: era diverso dai tanti rozzi pedatori che frequentavano i campi verdi. Un signore. A Bologna non ebbe grande fortuna. Era troppo un signore. Come "Fuffo". Se ne andarono insieme, nel '65.

Intanto, avevo traslocato: dal "Carlino" allo "Stadio", dove avrei iniziato con piglio deciso la mia carriera di giornalista sportivo. Lì, nella famiglia del "verdino", fui introdotto ai segreti del ciclismo, gestito con straordinaria bravura da Luigi Chierici, il direttore, da Remo Roveri, la Grande Firma, e da due amiconi del pedale, Ronchi & Mioli, che spesso incontravano un singolare personaggio, un campione mancato dicevano loro, in visita alla redazione: Romeo "Meo" Venturelli da Sassostorno. "Vedi - mi diceva Ronchi - questo se ne avesse avuta voglia sarebbe diventato un Coppi". Remo Roveri non gli sorrideva neanche: "Ha dissipato una ricchezza sportiva", mormorava inquieto. Ai giornalisti non piacciono quelli che ti fanno sbagliare un pronostico: e su "Meo" avevano puntato in molti, Roveri compreso.

Sarei tornato nel Frignano tante altre volte, o per cene fra amici, o per partecipare alla sanguinosa festa del maiale che lì veniva sacrificato per riempire le nostre dispense di buoni salami e prosciutti di montagna; infine, per portare le ragazzine a sciare a Sestola. Ma il momento sportivamente più originale fu quando Padre Gabriele Adami - che però era di Zocca - ci introdusse ai segreti della Ruzzola (o Ruzzolone). Io ero tornato al Carlino nel Settanta, a capo dello Sport, e già con il direttore Enzo Biagi eppoi con Girolamo Modenesi ebbi pressioni per introdurre la Ruzzola nelle pagine sportive. Inutilmente: "Non c'è spazio", gridava il caporedattore. E un giorno Padre Gabriele - quello che ci regalava ogni mattina alla radio i bellissimi pensieri di "Tre minuti con te" - trovò la soluzione. "Fai così", mi disse. E una domenica mi mandò un paio di notizie sulle gare del Ruzzolone. Le pubblicai. 

Alle undici di sera, quando uscì il giornale e ci mettemmo a guardare le pagine appena stampate con il caporedattore, l'amico fratone arrivò con due accompagnatori che recavano enormi ceste piene di ogni bendidio: enormi pagnotte di pane montanaro, salamoni, salsiccette, forme di formaggio grandi come una ruota di lambretta. "E mangiamoci questa ruzzola - disse tagliando il primo spicchio - con la benedizione di Dio... e delle nostre montagne". Fu così che diventammo tutti appassionati di ruzzola. E un po' più grassi. Proprio come Padre Gabriele.

Italo Cucci
Condirettore de "Il Resto del Carlino"